Breve storia dell’Inno di Mameli, ovvero: compendio di consapevolezza critica ad uso dei balconi
Cosa ci rivela Il canto degli italiani sul nostro passato e sul nostro presente? Una riflessione sull'origine, sugli usi e sugli abusi di un inno patriottico.
di Valentina Colombi - 29 marzo 2020
Un inno che risorge
Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta;
dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa.
Dov'è la vittoria? Le porga la chioma
ché schiava di Roma Iddio la creò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Con buona pace dei patrioti della prima e dell'ultima ora e dei nazionalisti di ogni estrazione, grande è la distanza storica che separa il nostro presente da queste parole. Una distanza misurabile in modo particolarmente preciso nei flash mob di questi giorni di quarantena, con migliaia di italiani che intonano l'inno nazionale in segno di coesione di fronte al dramma sanitario, suscitando un incontrovertibile effetto paradosso. L'incitamento alla morte per la patria echeggiante dalle radio, dalle finestre e dai balconi risulta infatti completamente privo di senso rispetto alla tensione alla vita e all'autoconservazione - sana e sacrosanta, non serve precisarlo - che, come individui, come società e come specie, stiamo manifestando di fronte al pericolo concreto della malattia e della morte.
Rilevato il paradosso, alla mente dello storico si affacciano alcune domande. In generale, quali punti di forza consentono, ancora una volta come sempre da quasi due secoli a questa parte, l'incrollabile tenuta del quadro identitario nazionale, in un frangente che invece ci mette drammaticamente davanti alla natura globale del tessuto sociale contemporaneo, e all'insensatezza di confini che ci ostiniamo a tracciare sulle carte politiche? E, scendendo nel caso particolare, come mai, in questo quadro, l'inno nazionale manifesta una forza simbolica tale da reggere al totale scollamento del suo contenuto dalla realtà sociale che lo utilizza?
Sono domande su cui possiamo ampiamente discutere, e non è questa la sede per provare ad articolare delle risposte che saranno giocoforza complesse. Tuttavia, qualche considerazione sull'inno è possibile e - credo - utile farla, soprattutto ad uso dei più giovani, che possono pensare che il Canto degli italiani - questo il suo titolo ufficiale - sia un "pilastro" della nostra ritualità civile da talmente tanto tempo che non valga neanche più la pena soffermarsi sul fatto che dice cose tanto legate al contesto in cui nacque, quanto distanti dal rappresentare l'Italia e gli italiani di oggi.

Un canto repubblicano tra Risorgimento e monarchia
Quanto il testo di
Goffredo
Mameli, giovane mazziniano genovese, sia un preciso
specchio del sentire
risorgimentale, e in particolare degli ambienti repubblicani che
frequentavano sia l'autore del testo - morto a vent'anni in
difesa della Repubblica Romana nel 1849 - sia il compositore della
musica Michele Novaro, ormai è cosa nota. O almeno dovrebbe esserlo,
anche in virtù del fatto che dal 2012, dalla stessa legge che
istituisce la Festa dell'Unità nazionale per il 17 marzo, tra le
varie iniziative orientate "ad informare e a suscitare la
riflessione sugli eventi e sul significato del Risorgimento nonché
sulle vicende che hanno condotto all'Unità nazionale, alla scelta
dell'Inno di Mameli
e della bandiera nazionale", "è previsto l'insegnamento
dell'Inno di Mameli
e dei suoi fondamenti storici e ideali".

Senza dubbio, l'esegesi dell'inno - dell'intero testo, e non solo dei versi iniziali e del ritornello, che normalmente costituiscono l'unica parte che viene eseguita come "inno nazionale" - è un bell'esercizio per comprendere alcuni "fondamentali" della cultura risorgimentale, del linguaggio patriottico ottocentesco e della narrazione storica da cui molti protagonisti di quell'epoca hanno tratto ispirazione per le loro gesta. Molto interessante, però - e su questo credo che normalmente non si trovi il tempo di discutere a scuola -, è anche riflettere sulla fortuna ondivaga che l'inno ha avuto nei più di 170 anni che sono trascorsi da quando è stato cantato la prima volta.
All'indomani
dell'unificazione nazionale del 1861, il canto che così bene
rappresentava il clima risorgimentale perde mordente. Posto che
l'inno ufficiale del Regno d'Italia è un altro, la Marcia
reale, anche come canto patriottico il componimento di Mameli e
Novaro non gode di considerazione nelle cerimonie istituzionali. Un
po' perché lo storytelling - mi si passi il termine -
della nazione italiana che vi è tracciato è disseminato di simboli
e riferimenti repubblicani, che in una monarchia non vanno tanto
bene. E poi perché, specie verso la fine dell'Ottocento, quando la
guerra non si fa più - e non ancora - tra "civili"
europei, ma si fa per sottomettere i popoli "selvaggi" in giro
per il mondo, le manifestazioni di odio contro l'Austria contenute
nell'ultima strofa del canto risultano inopportune. Ciononostante,
la sua memoria si conserva fuori dai circuiti ufficiali, soprattutto
in ambienti filo-mazziniani, finché, con il nuovo secolo e
coll'avvento del regime fascista, non si conquista un suo spazio
nelle cerimonie giovanili: il verso «i bimbi d'Italia si chiaman
Balilla» fornisce infatti la principale ispirazione per la
denominazione dell'Opera nazionale dedicata all'inquadramento
paramilitare dell'infanzia e l'inno viene eseguito nel corso
delle adunate ed esercitazioni dell'organizzazione.
La ripresa (provvisoria) di Mameli
Secondo quanto riporta Tullio De Mauro in un'appendice dedicata all'Inno di Mameli alla sua Storia linguistica dell'Italia repubblicana, i primi segnali di "ripresa" del canto, che aprono la strada alla sua assunzione quale inno istituzionale dell'Italia repubblicana, si riconoscono già alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, quando l'esecuzione dell'inno segue quello della Marcia reale in chiusura al comunicato radio con il quale il generale Pietro Badoglio informa gli italiani della destituzione di Mussolini. Poche settimane dopo, l'inno accompagna i confinati di Ventotene nel loro viaggio di ritorno sulla penisola, in seguito alla liberazione dei detenuti politici. D'altra parte, non mancano tentativi di appropriazione nemmeno da parte del fascismo repubblicano di Salò.
Ad ogni modo, in quei mesi l'inno si guadagna di nuovo qualche segno di affezione e qualche crisma di ufficialità. Siamo anche in un clima nel quale la morte per la patria e la guerra all'oppressore hanno un doloroso, concreto significato per decine di migliaia di italiani e italiane. Non è dunque un caso se il 12 ottobre 1946, quando il Consiglio dei ministri della neonata Repubblica italiana, presieduto da Alcide De Gasperi, deve decidere quale inno eseguire per le celebrazioni della Festa delle Forze armate del 4 novembre appena istituita, la scelta - su consiglio del liberale Manlio Bosio, ultimo ministro della Guerra della storia dello Stato italiano - cade proprio sull'Inno di Mameli. L'origine risorgimentale, gli echi repubblicani, gli appelli alla guerra "giusta" e all'unità degli italiani sono gli ingredienti che lo fanno preferire - "provvisoriamente", precisa il verbale - a un altro canto di riscatto nazionale molto popolare, la Leggenda del Piave, in carica come inno ufficiale dal 1943.
In quel
"provvisoriamente" possiamo vedere già racchiusa una
comprensibile diffidenza verso la capacità dell'inno di farsi
rappresentativo di una nazione in pace, avviata a una ricostruzione
che, si spera, metta le basi di una futura prosperità. E in effetti,
i grandi cambiamenti dell'Italia del boom ampliano progressivamente
uno iato tra l'immaginario disegnato dall'inno e i bisogni, le
speranze, i valori dell'Italia della seconda metà Novecento, che a
fine secolo sembra ormai incolmabile.
Silenzi, baraonde, giravolte
In effetti, dalla metà
anni Novanta, e almeno per tutto il primo decennio del nuovo
millennio, l'Inno di Mameli sembra ormai spacciato. Se è
vero che a diffonderlo e a renderlo noto a tutte le generazioni di
italiani concorrono le manifestazioni sportive internazionali, quel "Siam pronti alla morte, Italia
chiamò" suona ormai indicibile, perché palesemente scollegato dai
valori e dall'esperienza che hanno segnato il progresso civile di
una Repubblica che - ricordiamolo - ripudia la guerra per
statuto; e un indice nazional-popolare di questa sua inattualità è la
scena muta che i giocatori della nazionale di calcio impegnati nei
Mondiali del 1994 fanno ogni volta che l'inno è diffuso, a inizio
partita. L'unica squadra del mondo a non cantare il suo inno, si
dice: un fatto che fa sensazione e dà la stura a una serie di
attacchi e di proposte di sostituzione, da destra e da sinistra.
Tra i più accesi detrattori dell'Inno di Mameli in questo periodo c'è, ovviamente, la Lega Nord, impegnata nella costruzione di un sentimento nazionale "padano", in concorrenza e in opposizione rispetto a quello italiano. È interessante notare come siano stati proprio il pericolo leghista e le sue spinte secessioniste a generare una levata di scudi istituzionale che porta non soltanto i vertici dello Stato - in particolare i presidenti Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano - ma anche molti oppositori politici del partito "nordista" ad adoperarsi in difesa di un inno che fino a poco prima se ne stava negletto o addirittura osteggiato dai più.
Snodo cruciale in questo
senso risultano le celebrazioni per i 150 anni dell'Unità, che
alla luce dell'attualità politica assumono la funzione di un banco
di prova della tenuta di una compagine nazionale segnata da una
crescente disaffezione popolare, oltre che dalle spinte centrifughe del
leghismo. Così, mentre il 15 marzo 2011, alla solenne esecuzione del
Canto degli Italiani in apertura del Consiglio regionale della
Lombardia per la celebrazione del 150° anniversario dell'Unità, i
consiglieri della Lega restano fuori dall'aula in
segno di protesta, si coagula un nuovo patriottismo di sinistra, ben
rappresentato dalla pièce di esaltazione dell'inno e della
nazione italiana portata in scena durante il Festival di San Remo di
quell'anno, da Roberto Benigni, che si spinge a definire Scipione
un grande generale "italiano". Così, a fronte degli atti
provocatori da parte degli amministratori e dei leader leghisti,
volti a delegittimare l'inno nazionale, prende corpo una "reazione
patriottica" trasversale, nella quale istituzioni e forze politiche
di destra e di sinistra si prodigano per la salvezza dei simboli
unificanti e per il recupero di una "sana" coscienza nazionale.

È in questo clima che si giunge, nemmeno tre anni fa, all'ufficializzazione dell'inno, sancita definitivamente dalla Commissione affari istituzionali in sede deliberativa il 15 novembre 2017. L'iniziativa era partita nel 2016 dal partito di destra - erede del Movimento sociale italiano - che dal canto di Mameli ha mutuato il nome, Fratelli d'Italia. È interessante notare come nella breve relazione annessa alla proposta si faccia riferimento ai soli, blandi, decostruzionismi "da sinistra", mentre nulla si dica della posizione dissacrante dell'alleato politico, la Lega. La quale, quando nell'estate del 2017 il disegno di legge approda alla Commissione della Camera - promosso da Fratelli d'Italia insieme al Partito democratico - non si esprime; e nella seduta finale che approva la disposizione non si presenta, dichiarando di non avere nessun interesse riguardo all'argomento. Oggi, dopo aver concluso la sua svolta nazionalista, lo stesso partito rivendica con orgoglio un ruolo da protagonista nella riviviscenza di patriottismo che l'inno e i tricolori dai balconi dei quarantenati manifestano.
Osservata dalla prospettiva, parziale ma significativa, delle vicende dell'inno, la questione dell'identità nazionale italiana degli ultimi vent'anni sembra essersi delineata all'insegna del "delitto perfetto" operato dalla Lega Nord, la quale ha agito dapprima delegittimando e poi strumentalizzando a proprio vantaggio elementi identitari sul cui ruolo, nel panorama civile e politico contemporaneo, non dobbiamo smettere di interrogarci. Per decidere che tipo di patto di cittadinanza vogliamo vivere, nell'emergenza come nella normalità.